En- “dentro” e Pathos “sentimento”.
Ovvero empatia.
Una definizione, come tante altre, su una capacità dell’essere umano. Forse la più straordinaria delle capacità.
Al di là di ogni suggestiva spiegazione etimologica, siamo empatici quando riusciamo a sentire in noi il sottile vibrare emotivo di un’altra persona, restando – al contempo – lucidi, presenti in noi. Non è assimilarsi, non è fondersi.
È restare unici nel nostro più ampio abbraccio al mondo.
Camminare, passeggiare, correre insieme alle più piccole parti di anime sconosciute che ci sfiorano mentre ci facciamo inondare il viso da sogni remoti, altrettanto sconosciuti, ma in qualche modo intimi. Come la lontana luce di mondi affondati nel buio di ciò che non conosciamo.
Ma che vogliamo conoscere. Perché ci attira, perché sappiamo di voler uscire da noi per essere l’altro, in un infinito scambio di gesti, sguardi, linguaggi.
Per essere finalmente ancor più noi stessi, negli altri. Con gli altri.
Per parlare ogni lingua, per piangere le stesse lacrime, per comprendere la gioia più autentica.
Per essere figli di ogni tempo.
Per essere fuori da ogni tempo.